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26/03/2012 - ai sig. curatori - doc. n.2 del'AG delle Entrate: il Decreto di omologa del concordato sconta l'imposta fissa di registro
PRIMO DOCUMENTO

DALL’AGENZIA DELLE ENTRATE: IL DECRETO DI OMOLOGA DEL CONCORDATO SCONTA L’IMPOSTA FISSA DI REGISTRO





Con la risoluzione n. 27/E del 26 marzo 2012 l’Agenzia delle Entrate muta il suo orientamento circa il trattamento fiscale, ai fini dell’imposta di registro, del decreto di omologa del concordato (cfr. per i precedenti Ris. 28/E 2008).

Aderendo al più recente indirizzo della Cassazione sul punto (Cass. 10352/2007; Cass. 19141/2010) l’amministrazione afferma, infatti, che il decreto di omologa sconta l’imposta di registro in misura fissa ai sensi dell’art. 8 lettera g) allegata al TUR, il quale contempla espressamente gli atti giudiziari di omologazione.

Tuttavia, l’Agenzia, diversamente dalla Cassazione, opera un distinguo in ragione degli effetti che l’atto è idoneo a produrre, con la conseguenza che solo il decreto di omologa del concordato con garanzia o con cessione dei beni si fa rientrare nell’ambito applicativo della lettera g) del menzionato articolo 8.

Nel caso in cui sia prevista la cessione dei beni ad un terzo assuntore, poiché “l’atto giudiziario di omologa produce effetti immediatamente traslativi”, risulterà invece applicabile, secondo l’amministrazione, l’imposta di registro proporzionale in base alla disposizione recata dalla lettera a) dello stesso articolo 8.



Susanna Cannizzaro



***



Agenzia delle Entrate

RISOLUZIONE n. 27/E del 26 marzo 2012

OGGETTO: Consulenza giuridica – Applicazione articolo 8 Tariffa, parte prima, allegata al Testo unico dell’imposta di registro, approvata con DPR 26 aprile 1986, n. 131 (TUR), recante il trattamento fiscale degli atti giudiziari



Quesito

ALFA ha chiesto di conoscere la disciplina applicabile, ai fini dell’imposta di registro, al decreto di omologa del concordato preventivo emesso da un Tribunale fallimentare.

Il quesito proposto attiene alla corretta applicazione dell’articolo 8 della Tariffa, parte prima, allegata al Testo unico dell’imposta di registro, approvata con DPR 26 aprile 1986, n. 131 (TUR), recante il trattamento fiscale degli atti giudiziari.



Soluzione interpretativa prospettata

L’istante rappresenta di non condividere l’interpretazione fornita da questa Agenzia con la risoluzione 31 gennaio 2008, n. 28. Con tale risoluzione, è stato affermato che il decreto di omologa emesso dal tribunale ha natura costitutiva e deve essere assoggettato ad imposta di registro nella misura proporzionale del 3 per cento, ai sensi dell’articolo 8, lettera b), della Tariffa (atti “recanti condanna al pagamento di somme o valori, ad altre prestazioni o alla consegna di beni di qualsiasi natura”).

A parere dell’istante, invece, i provvedimenti di omologazione emessi dall’autorità giudiziaria devono essere ricondotti nell’ambito della previsione recata dalla lettera g) dell’articolo 8 della Tariffa, secondo cui i provvedimenti di omologazione emessi dall’autorità giudiziaria sono assoggettati ad imposta di registro in misura fissa.

Con il decreto di omologa, infatti, il tribunale esperisce una mera attività di controllo rispetto all’autonomia negoziale privatistica espressa nel patto concordatario.

Tale interpretazione appare condivisa dalla Corte di Cassazione, che con le sentenze 7 maggio 2007, n. 10352 e 7 settembre 2010, n. 19141 ha affermato (con riguardo alla sentenza di omologa del concordato preventivo con garanzia) che “la sentenza di omologazione del concordato preventivo rientri nella dizione di cui alla lettera g) che per l’appunto comprende genericamente gli atti di “omologazione”, così come la giurisprudenza di questa Corte ha già ritenuto quanto al concordato preventivo con cessione dei beni”.



Parere dell’Agenzia

L’articolo 160 del RD 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare – di seguito LF) prevede che “l’imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di una piano che può prevedere:

a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito;

b) l'attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore; possono costituirsi come assuntori anche i creditori o società da questi partecipate o da costituire nel corso della procedura, le azioni delle quali siano destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato;

c) la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei;

d) trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse”.

Le successive disposizioni disciplinano l’iter procedurale necessario al riconoscimento del concordato preventivo. In particolare, l’articolo 180 della LF stabilisce che “se non sono proposte opposizioni, il tribunale, verificata la regolarità della procedura e l’esito della votazione, omologa il concordato con decreto motivato non soggetto a gravame”.

Con riferimento a tale provvedimento, la scrivente, con risoluzione 31 gennaio 2008, n. 28, ha affermato che il concordato preventivo è una procedura concorsuale dalla natura complessa al termine della quale viene emanato un decreto di omologa avente effetto costitutivo, posto che l’omologazione non si estrinseca in un mero momento di controllo.

Per effetto di detto provvedimento - precisa il citato documento di prassi - si realizza una nuova situazione soggettiva attiva di natura patrimoniale, che comporta l’applicazione, per il decreto di omologa del concordato preventivo, dell’imposta di registro nella misura proporzionale del 3 per cento, ai sensi dell’articolo 8, lettera b), della Tariffa, parte prima, allegata al TUR.

Le conclusioni adottate dall’Amministrazione Finanziaria, con la citata risoluzione n. 28 del 2008, non hanno, tuttavia, trovato conferma nella giurisprudenza della Corte di Cassazione che, in talune sentenze, (v. sentenza 7 maggio 2007, n. 10352 e 7 settembre 2010, n. 19141) è pervenuta a conclusioni differenti.

Difatti, la Suprema Corte, in relazione ad una ipotesi avente ad oggetto una sentenza di omologa del concordato preventivo con garanzia, ha precisato che “…mentre, infatti, l’originaria formulazione della seconda parte della lettera c) che ricomprendeva gli atti “portanti condanna al pagamento di somme, valori ed altre prestazioni o alla consegna di beni di qualsiasi natura” trova ora il suo omologo nella lettera b) relativa agli atti “recanti condanna al pagamento di somme o valori, ed altre prestazioni o alla consegna di beni di qualsiasi natura” è invece scomparsa qualsiasi previsione di carattere residuale (…) rinvenibile nella previsione relativa agli atti “aventi per oggetto beni e diritti diversi da quelli indicati alle lettere a) e b)” in cui (…) la giurisprudenza aveva ricompreso la sentenza di omologa del concordato con garanzia”.

Pertanto, rileva la Corte “esclusa (…) la possibilità di inquadramento in una delle ipotesi da a) ad f) non resta che rivalutare il criterio nominalistico e quindi ritenere che la sentenza di omologazione del concordato preventivo rientri nella dizione di cui alla lettera g) che per l’appunto, comprende genericamente gli atti “di omologazione”, così come la giurisprudenza di questa Corte ha già ritenuto quanto al concordato preventivo con cessione dei beni”.

Da ciò deriva che il riportato orientamento della Corte, valorizzando una interpretazione di carattere nominalistico della disposizione recata dall’articolo 8 della Tariffa allegata al TUR, afferma la riconducibilità del decreto di omologa del concordato preventivo con garanzia (nonché del concordato con cessione dei beni) alla previsione recata dalla lettera g) dell’articolo 8, che dispone l’applicazione dell’imposta di registro nella misura fissa di 168 euro per gli atti giudiziari “di omologazione”.

I principi espressi dalla Corte di Cassazione inducono a sviluppare ulteriori considerazioni in ordine al trattamento da riservare, ai fini fiscali, ai provvedimenti in questione.

A ben vedere, infatti, il decreto di omologa del concordato preventivo con cessione di beni non produce effetti traslativi.

A tal proposito si fa presente che la Corte di Cassazione, con sentenza 20 marzo 1998, n. 2957 (richiamata nella riportata sentenza n. 10352 del 2007), nel riconoscere la tassazione in misura fissa del decreto di omologa del concordato preventivo con cessione dei beni, ha precisato che l’imposizione in misura proporzionale “potrebbe trovare il suo presupposto soltanto in una fattispecie giuridica risolventesi in un trasferimento di beni (o di diritti) o nell’assunzione di obbligazioni (per tali intendendosi quelle che, non essendo meramente riproduttive della situazione debitoria del proponente, possano essere assunte come fonte genetica di una situazione giuridica autonomamente rilevante inter partes)”.

In altri termini, il concordato con cessione dei beni non comporta il trasferimento dei beni, giustificativo dell’imposizione proporzionale, posto che dopo l’omologazione e durante la fase di liquidazione, fino al momento della alienazione (unitaria o frazionata), i beni del debitore concordatario rimangono di sua proprietà, benché assoggettati ad un vincolo di destinazione al quale non possono essere sottratti.

Tutto ciò premesso, in base ai riportati orientamenti giurisprudenziali, si deve ritenere che i decreti di omologazione dei concordati con garanzia, così come quelli aventi ad oggetto i concordati con cessione dei beni, devono essere assoggettati ad imposta di registro in misura fissa, in quanto annoverabili tra gli atti di cui alla lettera g) dell’articolo 8 della Tariffa, parte prima, allegata al TUR, relativa agli “atti di omologazione”.

In tal senso, devono ritenersi superati i chiarimenti forniti dalla scrivente con la citata risoluzione n. 28 del 2008.

Si precisa che la tassazione in misura fissa non trova, invece, applicazione nel caso di concordato con trasferimento dei beni al terzo assuntore.

In tale ipotesi, infatti, il decreto di omologa del concordato che dispone la cessione dei beni al terzo assuntore assume natura traslativa.

La Corte di Cassazione, con riferimento alla diversa ipotesi di concordato fallimentare con assuntore ha, infatti, avuto modo di precisare (sentenza 8 novembre 2002, n.15716) che “…nel caso in cui la sentenza di omologazione del concordato disponga la vendita di tutti i beni inventariati all’assuntore, rimettendo al giudice delegato di adottare eventuali provvedimenti di esecuzione, il trasferimento dei beni del fallimento nel patrimonio dell’assuntore trova il suo titolo, diretto ed immediato, esclusivamente nella sentenza di omologazione…”.

Ne consegue che, a differenza di quanto si verifica nella procedura di concordato con cessione di beni o con garanzia, nel caso di concordato con cessione di beni all’assuntore, l’atto giudiziario di omologa produce effetti immediatamente traslativi.

Si ritiene, pertanto, che il decreto di omologa di un concordato con cessione di beni all’assuntore, quale atto traslativo della proprietà dei beni, deve essere ricondotto all’ambito applicativo della disposizione recata dall’articolo 8, lettera a), della Tariffa, parte prima, allegata al TUR, che prevede l’applicazione dell’imposta di registro con le stesse aliquote previste per i corrispondenti atti, per i provvedimenti giudiziari “recanti trasferimento o costituzione di diritti reali su beni immobili o su unità da diporto ovvero su altri beni e diritti”.

Le Direzioni regionali vigileranno affinché i principi enunciati e le istruzioni fornite con la presente risoluzione vengano puntualmente osservati dalle Direzioni provinciali e dagli Uffici dipendenti.





SECONDO DOCUMENTO

Quesito di Impresa n. 229-2011/I





DIMISSIONI DEL COLLEGIO SINDACALE E ISTANZA DI AMMISSIONE AL CONCORDATO PREVENTIVO





Si chiede se sia ricevibile un verbale del consiglio degli accomandatari di una s.a.p.a. che deliberi in merito alla proposta ed alle condizioni del concordato preventivo, tenuto conto del fatto che tutti i membri del collegio si sono dimessi ed i soci non hanno provveduto alla loro sostituzione.

***

In merito al quesito posto, si deve valutare se, in caso di dimissioni del collegio sindacale, operi o meno la prorogatio, così come, in forza di espressa previsione normativa (art. 2385 c.c.) avviene per l’organo amministrativo.

Il problema della applicabilità dell’istituto della prorogatio all’ipotesi di dimissioni di componenti il collegio sindacale ha dato luogo, in dottrina e in giurisprudenza, a due diverse posizioni.

Occorre muovere dalla premessa per cui ogni sindaco può rinunciare alla carica in qualunque momento ma, se manca una giusta causa, la società può chiedergli il risarcimento del danno, salvo il caso in cui la rinuncia avvenga in seguito ad operazioni straordinarie che abbiano mutato le maggioranze azionarie. In presenza di giusta causa (ad es. scoperta di irregolarità amministrative nella gestione), è opportuno che il sindaco spieghi i motivi della sua scelta nella lettera di rinuncia e in uno o più verbali delle verifiche effettuate.

Le dimissioni non escludono la responsabilità del sindaco se egli non si attiva per evitare che gli amministratori pongano in essere atti pregiudizievoli alla società o non fa quanto possibile per ridurre al massimo l'entità dei danni già provocati (Trib. Genova 5 giugno 1992), ad esempio convocando l'assemblea ai fini della ricomposizione del collegio sindacale, qualora gli amministratori non vi provvedano (Pret. Milano 25 luglio 1983, in Giur. comm., 1984, II, 202).

Il dato normativo non appare risolutivo per la soluzione del problema.

L’art. 2400 c.c. si limita a prevedere, al comma 1, ultimo periodo, che “la cessazione dei sindaci per scadenza del termine ha effetto dal momento in cui il collegio è stato ricostituito”, espressamente riconducendo alla scadenza del termine il regime di prorogatio.

Mentre, l’art. 2401 c.c. disciplina la sostituzione, stabilendo che “in caso di morte, di rinunzia o di decadenza di un sindaco, subentrano i supplenti in ordine di età, nel rispetto dell'articolo 2397, secondo comma. I nuovi sindaci restano in carica fino alla prossima assemblea, la quale deve provvedere alla nomina dei sindaci effettivi e supplenti necessari per l'integrazione del collegio, nel rispetto dell'articolo 2397, secondo comma. I nuovi nominati scadono insieme con quelli in carica”. La norma, quindi, non riconduce espressamente la prorogatio al caso di dimissioni che comportano, comunque, il subentro del supplente.

Per quanto riguarda, invece, l’organo amministrativo, l’art. 2385 c.c., norma ispirata al principio di continuità delle funzioni dell'organo gestionale, prevede che “L'amministratore che rinunzia all'ufficio deve darne comunicazione scritta al consiglio d'amministrazione e al presidente del collegio sindacale. La rinunzia ha effetto immediato, se rimane in carica la maggioranza del consiglio di amministrazione, o, in caso contrario, dal momento in cui la maggioranza del consiglio si è ricostituita in seguito all'accettazione dei nuovi amministratori.

La cessazione degli amministratori per scadenza del termine ha effetto dal momento in cui il consiglio di amministrazione è stato ricostituito”.

Manca, quindi, nella disciplina del collegio sindacale, una norma del tenore di quella prevista dal comma 1 dell’art. 2385 c.c., il che pone il problema della sua possibile applicazione analogica anche ai sindaci.

In dottrina, è stato sostenuto che nel caso in cui più sindaci si dimettano simultaneamente e con l’ingresso dei supplenti non sia completato il collegio, ovvero anche questi ultimi presentino le dimissioni, dovranno considerarsi in carica i sindaci ultimi dimissionari (prima della riforma, Cottino, Diritto commerciale, I, 2, Le società, Padova, 1999, 451; Cavalli, I sindaci, in Tratt. Colombo – Portale, 5, Torino, 1988, 45; Id., Il collegio sindacale, in Società per azioni, in Giur. sist. Bigiavi, Torino, 1996, 662; Tedeschi, Il collegio sindacale, Artt. 2397-2408, in Commentario Schlesinger, Milano, 1992, 77 ss.. In giurisprudenza, Trib. di Roma 27 aprile 1998, in Società, 1998, 1442. Successivamente alla riforma, Magnani, Sub art. 2401, in Commentario Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Milano, 2005, 147; Domenichini, sub artt. 2400-2041, in Società di capitali. Commentario, cur. Niccolini – Stagno d’Alcontres, II, Napoli, 2004, 744 s.; Ambrosini, Sub artt. 2400-2402, in Il nuovo diritto societario. Commentario, cur. Cottino, Bonfante, Cagnasso, Montalenti, *, Bologna, 2004, 886 s.).

L'ordinamento, infatti, mira ad evitare soluzioni di continuità nel funzionamento degli organi essenziali della società, e rispetto al perseguimento di tale finalità non appare ostativa la regola contenuta nel secondo comma dell'art. 1727 c.c., a mente del quale il recesso ha efficacia immediata ove sia dovuto a giusta causa ed ha invece efficacia differita al decorso del termine di preavviso quando manchi una giusta causa. “Quella testé enunciata, infatti, è una regola di carattere generale in ambito civilistico, che in tanto trova applicazione in quanto non vi siano princìpi diversi, qual è appunto, nelle società di capitali, l'esigenza di non pregiudicare il funzionamento dell'organo di controllo completo di tutti i suoi componenti; esigenza che si ricava oggi chiaramente dal tenore dell'art. 2400, 1° co., ult. parte” (così Ambrosini, Sub artt. 2400-2402, cit., 886).

Si rileva, pertanto, come il complesso della disciplina degli organi sociali lascia intendere che il legislatore ha considerato l'interesse alla completezza del collegio di grado poziore rispetto all'interesse del singolo componente a ces­sare dalla carica, sicché, se a dimettersi sia un sindaco, l'interesse del primo allo scioglimento del rapporto non può prevalere sull'eventuale interesse della società alla completezza dell'organo. Né pare ostativa rispetto alla soluzione accolta l'obiezione secondo la quale l'estensione ai sindaci dimissionari della regola della prorogatio condurrebbe alla paradossale conseguenza che, ove costoro cessino di svol­gere le loro mansioni, e gli amministratori non si attivino per la loro sostitu­zione, la società opererebbe con un collegio sindacale tale soltanto sulla carta e ciò in contrasto con la regola che senza Collegio sindacale la s.p.a. non può funzionare.

L’inerzia degli amministratori, infatti, porterebbe al medesimo ri­sultato anche nel caso di efficacia immediata delle dimissioni dei sindaci: que­sti - è ben vero - non sarebbero più considerati in carica, ma la società sareb­be, a quel punto, addirittura priva dell'organo di controllo, con l'aggravante, per così dire, che l'assemblea non potrebbe venire convocata dai sindaci ex art. 2406 (così, ancora, Ambrosini, sub artt. 2400-2402, cit., 887).

La tesi dell’ammissibilità della prorogatio del collegio sindacale, che sembra essere accolta dalla dottrina dominante, non appare tuttavia pacifica nella più recente giurisprudenza di merito.

Due recenti pronunce hanno escluso radicalmente l’applicabilità di tale istituto alla fattispecie della rinuncia (Trib. Napoli 15 ottobre 2009 in Foro it. 2010, 1965; Giudice del Registro Imprese del Tribunale di Milano, 2 agosto 2010, in Le Società 2010, 1310, secondo cui «la rinunzia di un sindaco ha effetto immediato non solo quando sia possibile l’automatica sostituzione del dimissionario con un sindaco supplente, ma anche laddove tale sostituzione non sia possibile per la mancanza dei sindaci supplenti»).

Le argomentazioni sulle quali si fonda la tesi giurisprudenziale contraria alla prorogatio si possono sinteticamente così riassumere:

- il dato letterale dell’art. 2401 c.c., a differenza di quanto espressamente previsto nell’art. 2400 c.c., non contempla l’istituto della prorogatio;

- la natura pubblicistica dell’istituto della prorogatio, che si è affermato nel settore del diritto pubblico al fine di assicurare la continuità di funzionamento di un organo, impedirebbe l’applicazione analogica dell’art. 2400 c.c., il quale è dettato per la diversa ipotesi di cessazione dell’incarico per scadenza del termine;

- la prorogatio si pone in contrasto con la volontà del sindaco dimissionario di non voler proseguire nell’incarico;

- nelle società di capitali non sussisterebbe l’esigenza di continuità di funzionamento dell’organo di controllo. A differenza, infatti, delle conseguenze derivanti dalla cessazione dell’organo amministrativo, è ipotizzabile una vacatio, ancorché breve, dell’organo di controllo, che non è tenuto né a svolgere un impegno quotidiano, né a garantire una costante presenza fisica nella vita della società. Inoltre, nell’ipotesi di inerzia dell’assemblea in ordine all’integrazione dell’organo di controllo, si verrebbe a verificare una causa di scioglimento della società per mancato funzionamento dell’assemblea, evitando così la sopravvivenza di una società priva dell’organo di controllo obbligatorio (si deve, tuttavia, sottolineare come anche la conseguenza della mancata nomina del collegio sindacale costituisca una questione piuttosto controversa. Sul punto, relativamente alla mancata nomina del collegio sindacale nelle s.r.l. per le quali lo stesso sia obbligatorio, è in corso un approfondimento da parte della Commissione Studi di Impresa).

In virtù di tali considerazioni, si ritiene che nel caso di dimissioni non opererebbe la prorogatio del collegio sindacale (in dottrina: Talice, Applicabilità della prorogatio ai sindaci rinunzianti dopo la riforma del diritto societario, in Società, 2008, 24 ss.; Righini, Violazione dell'obbligo di istituzione del collegio sindacale nelle società di capitali. Conseguenze ed effetti, in Riv. dott. comm., 2010, 115 ss.; Divizia, L’istituto della prorogatio applicato al collegio sindacale fra norme imperative ed autonomia statutaria, in Riv. not., 2011, 13. V., anche, l’Orientamento del Comitato Triveneto dei Notai H.E.1. In giurisprudenza, ante riforma, Trib. Monza 26 aprile 2001, in Società, 2001, 1229).

In conclusione, appaiono sostenibili entrambe le soluzioni: la prima, favorevole alla prorogatio e sostenuta dalla prevalente dottrina, consente di evitare lo scioglimento della società imponendo, però, ai sindaci dimissionari l’obbligo di continuare a svolgere le proprie funzioni fino al rinnovo dell’organo di controllo; la seconda, contraria alla prorogatio e seguita dalla recente giurisprudenza di merito, appare più aderente al dettato normativo, ma dovrebbe condurre alla drastica conseguenza dello scioglimento della società nel caso di prolungata inerzia dell’assemblea nel rinnovo dell’organo di controllo.

***

Nel caso in esame la società intende deliberare la domanda di ammissione al concordato preventivo.

L’art. 161 l fall. prevede che la domanda per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo sia proposta con ricorso, sottoscritto dal debitore, al tribunale del luogo in cui l’impresa ha la propria sede principale.

Se si tratta di società, la domanda deve essere approvata e sottoscritta a norma dell’art. 152 l. fall., norma che disciplina la proposta di concordato fallimentare da parte di società fallite.

La lettera b) del comma 2 dell’art. 152 l. fall. stabilisce che nelle società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata, nonché nelle società cooperative, la proposta e le condizioni del concordato sono deliberate dagli amministratori.

L’art. 2405 c.c. richiede l’assistenza dei sindaci tanto alle assemblee dei soci, quanto alle adunanze del consiglio d’amministrazione e del comitato esecutivo.

Qualora si aderisca alla tesi secondo cui anche ai sindaci dimissionari si applica l’istituto della prorogatio, la mancata partecipazione dei sindaci alla riunione del consiglio degli accomandatari rileverebbe esclusivamente ai fini dell’adempimento dei doveri dei sindaci stessi e della loro responsabilità verso la società, i soci ed i terzi.

Viceversa, qualora si aderisca alla tesi dell’inammissibilità della prorogatio, ferma restando la sussistenza di una causa di scioglimento della società, si deve valutare se la delibera possa essere adottata anche in mancanza del collegio sindacale.

Sul punto, occorre rilevarsi come dopo la riforma del diritto fallimentare, la domanda di concordato delle società rientri nell’ambito delle scelte gestionali dell’impresa. La scelta del legislatore di attribuire la relativa competenza agli amministratori dimostra che la ricerca di una soluzione alla crisi dell’impresa, quale è l’istanza di concordato, costituisca un’attività rientrante nella gestione imprenditoriale dell’ente (Pacchi, I concordati delle società, in Fallimento e altre procedure concorsuali, 2, diretto da Fauceglia – Panzani, Torino, 2009, 1525, sottolinea come l’art. 152 l. fall. costituisca una puntuale applicazione dell’art. 2380-bis c.c., secondo cui “la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”).

L’art. 152 l. fall., nel prevedere la competenza degli amministratori, non richiede la redazione di documenti o il rilascio di pareri da parte del collegio sindacale.

I commi secondo e terzo dell’art. 161 l. fall., infatti, prevedono che, insieme al ricorso, siano presentati: una aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa; uno stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione; l’elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore, il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili. La veridicità dei predetti documenti deve essere attestata attraverso la relazione di un professionista terzo ed imparziale, iscritto nei revisori contabili, in possesso dei requisiti di cui all’art. 28 l. fall. per la nomina a curatore.

Si potrebbe, quindi, ipotizzare che, anche in mancanza del collegio sindacale, il notaio non possa rifiutarsi di ricevere ed iscrivere la relativa delibera, in quanto risultano rispettate le condizioni richieste dalla legge relativamente alla delibera stessa (Maglulo – Tassinari, Il funzionamento dell’assemblea di s.p.a. nel sistema tradizionale, Milano, 2008, 132, rilevano come l’obbligo per i sindaci di assistere alle riunioni assembleari e del consiglio d’amministrazione è preso in considerazione dall’art. 2405 c.c. come motivo di decadenza in caso di assenza ingiustificata del sindaco e non, invece, come requisito di validità della riunione).

Occorre, tuttavia, segnalare che in presenza dell’impossibilità di nominare un nuovo collegio sindacale, potrebbe configurarsi una causa di scioglimento della società e, conseguentemente, gli amministratori si assumerebbero il rischio di proseguire l’attività sociale in violazione del loro dovere di prendere atto dell’impossibilità di funzionamento della società per mancanza di uno degli organi richiesti dalla legge.



Daniela Boggiali e Antonio Ruotolo






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